La virtù del ferro
La spoglia dell’Imperatrice
Errante è discesa nella cripta fredda e nera per sempre, poiché la prammatica
cerimoniale ha oppresso l’ultima parola di quella volontà sovrana che, vivente,
avea saputo per sempre liberarsi. “Dolcemente sulla mia tomba, dolcemente, o
ellera, arràmpicati svolgendo i tuoi verdi rami: che i calici dalle rose vi si
espandano; che la vite dai bei grappoli la circondi coi pampani flessuosi.”
Ella aveva ripetuto i versi dell’epigrafe funebre, nel presentimento della
fine; aveva imaginato il suo sepolcro sospeso sulle acque favolose, inclinato
verso le innumerevoli labbra del mare.
Nella cieca catacomba, il suo
cadavere si dissolve; ma la figura del suo sogno brilla pei poeti lungo le
sponde ionie, a Corcira, là ove le sue speranze infrante e le sue angosce
crudeli diventarono “simili alle tenere cose del mar primaverile”. Il ritmo che
regolava la magnifica anima si mesce a quella melodia nel mondo che così a
lungo ella ascoltò coricata nell’erba o nella sabbia, sotto il sole e sotto le
stelle, sentendo l’immensità del suo dolore eguagliare i fiumi che scorrono e
gli oceani che ondeggiano.
Vi è nella morte tragica di
Elisabetta d’Austria una perfezione che mi esalta. Sotto il colpo rapido e
preciso la beltà secreta di questa vita imperiale si è rivelata subito ai
nostri occhi con un rilievo straordinariamente puro, come il bronzo della
statua immortale splende d’un tratto fuor della ganga spezzata dal colpo del
martello brutale. Io conosco dei cuori che han palpitato di entusiasmo
apprendendo certi particolari ammirevoli del trapasso sanguinoso.
Fra tanti inutili lamenti e tante
stupide collere, solo è degno dell’alta vittima il grande sentimento di
possanza e di libertà di cui si fortificano gli spiriti che han saputo vedere
nelle strane congiunture del caso una pura linea di vita terminare in uno
scorcio terribile ed una effigie umana integrarsi meravigliosamente nella
morte.
“Una morte armoniosa nell’ora
opportuna...”. Il suo dolore e il suo sogno non eran maturi come quei frutti di
settembre ch’ella mangiava seduta sulle rocce lacustri guardando impallidire le
belle acque? Il Destino, che aveva rischiarato con fulmini sì grandi la sommità
di quell’anima solitaria, la trattò con una mano egualmente ardente e
forte nell’ora in cui vide la necessità di staccarla in piena luce e di
fissarla nella memoria degli uomini per mezzo dello schianto dell’avvenimento
impreveduto.
Parve si compiesse un voto
mistico. Non aveva ella invocato il colpo rapido, l’antica eutanasia che dava
Artemisia lanciando uno strale invisibile contro il designato petto? Non aveva
ella desiderata una morte subitanea “sotto lo splendore del cielo”? La poesia
del suo voto fu oltrepassata dal lampo reale dei suoi istanti supremi. La
parola di Goethe era nel silenzio della sua bocca sanguinolenta: “Così dunque,
o Realizzazione, figlia più bella dell’augusto Padre, tu discendi alfine in me!”.
Il ferro che imprime e il sangue che colora le immagini umane più nobili nella
memoria, il ferro e il sangue hanno dato ai contorni della sua figura il
carattere inviolabile dello stile, han fatto emergere dall’oscura sostanza
vitale un segno che gli uomini forse non avrebbero riconosciuto se non fossero
stati rivolti violentemente verso la morta dall’orrore e dalla pietà.
Tutto mi sembrava stranamente
lontano nella narrazione di questa eutanasia; tutti i particolari mi sembrarono
significativi e ordinati come in un mito. Trascurabili sono le circostanze
apparenti dell’uccisione e trascurabile è quello schiavo che per tanto seppe
adempiere con tanta esattezza il suo mandato funebre. A traverso le apparenze,
si scovre una figurazione ideale del sogno e della morte.
Ella muore nell’ora panica, nell’ora
fiammeggiante, questa creatura senza sonno che, ogni mattina, dall’alto di una
prua o d’un promontorio, salutava l’aurora con la parola d’Ifigenia: “Niente
è più dolce del contemplare la luce!”. Ella è colpita nell’atto in cui s’avanzava
ancora una volta verso la riva, ancora una volta verso l’acqua maravigliosa e
consolatrice che l’attirava sempre con la promessa di schiuderle visioni più
profonde e di condurla in paesi più nascosti. Piena già del silenzio eterno, l’anima
abbagliata dalle cose che apparivano a traverso il velo squarciato, ella segue
il suo cammino, raggiunge la riva, monta sulla nave, mette il piede sul ponte
imperiale; e l’ancora è salpata “Navigare necesse est, vivere non necesse est”.
Subitamente quella nave perde ogni realtà volgare e diventa augusta; il solco
di quella carena sembrava incancellabile, perché è tracciato nell’elemento del
sogno e della morte.
Ed è così che, per aver sempre
trattato la realtà come una schiava, questa donna ha potuto incoronarsi col
fiore intatto della sua anima all’ora del trapasso e, veramente imperiale dalla
corona ai piè, ci si presenta subito come un magnifico esempio di solitudine,
di potenza e libertà. Questa Imperatrice e Regina non conosceva per la sua
forza che un solo impero e un sol regno: la vita interiore. Nessuno ha fornito
una più sicura testimonianza d’aver compresa la parola del Vinci: “Non si può
avere una più grande signoria di quella di sé stesso”.
Ivi ella regnava, e nessun’altro
che lei. La sua patria non era che il luogo del suo desiderio. La rapidità era
la sua ebrezza. Il cavallo che si slanciava e la vela che si gonfia le davano l’illusione
delle ali. Le rugiade dei prati la conoscevano, e le sabbie salate, e le
moltitudini marine, e i venti, e le piogge, e le aquile, e le vie invisibili, e
i perigli affascinanti. Ella amava vedere il morso e la prua covrirsi di spuma,
mentre il suo dolore si faceva forte come la terra o fervente come il mare.
Era la terra di Nausicaa dal bel
peplo, era il mare di Ulisse che combattette nove anni per Elena dalle bianche
braccia nata da un padre divino. Come il Laertiate, quella pellegrina, “dopo
aver subito numerose miserie”, aveva trovato il suo rifugio nel cavo di una
baita ionica. Gli occhi che, poco innanzi, sulle coste del Baltico, guardavano
contro il sole terso le cose naturali imprigionate nell’ombra, quegli stessi
occhi scovrirono nella sabbia ardente le vestigia d’una vita sublime e scorsero
ondeggiare sul flutto le uve ancor vive delle favole. Così la loro vista si
cangiava in visione continua e profonda. Non credettero essi veder passare all’alba
il legno cavo più rapido dello sparviero, portante un uomo ch’avesse i pensieri
eguali a quelli di un dio? Ed essi riconobbero in una sera d’estate, il corpo
di Saffo, più pallido dell’erba arida, disseccato di desiderio, fluttuante nel
sale caldo che schiumava dalle labbra del mare ansante.
Bisogna che un poeta latino canti
le lodi di questa Imperatrice lontana, di questa eroina del sogno. Ella seppe
crearsi un mondo e vivervi secondo le forze della sua anima messa in libertà.
Bisogna celebrarla. Ella sarebbe disparita, forse, nell’oblio degli uomini, se,
per virtù del ferro, la sua immagine non fosse emersa violentemente dall’ombra
in uno splendore purpureo. Bisogna celebrare la bellezza ermetica del suo volto
dalle linee immobili sotto il grave colore autunnale che appesantiva le sue
trecce, e la fiamma del suo pallore sotto l’ombra del sangue che inazzurriva le
sue grandi palpebre curve, e il silenzio della sua breve bocca in cui il succo
dei frutti mitigava l’asprezza delle lacrime, e la sua anima, la sua anima
secreta, che portava al centro la testa di Medusa dalla quale Pallade armò la
sua egida d’oro.
Gabriele d’Annunzio